Lo Stato abbandona Valeria Grasso togliendole i contributi

Agosto 2nd, 2013 by Matteo infoLab0.1
L’amara scoperta della testimone di giustizia, inserita nel programma di protezione.

Valeria Grasso

Che Stato è quello che abbandona i testimoni di giustizia togliendo i contributi previsti dal programma protezione senza neanche avvisare? 

E’ questa la domanda che sorge spontanea una volta che si viene a conoscenza di quanto accaduto all’imprenditrice palermitana Valeria Grasso (foto).
Sono due anni ormai che è entrata nel programma di protezione testimoni dopo che ha avuto il coraggio di ribellarsi al gioco del racket facendo arrestare i suoi estorsori, appartenenti al clan Madonia fra cui Maria Angela Di Trapani.

Con i suoi tre figli vive in località protetta dove ha vissuto per sette mesi in un albergo, prima di approdare in un appartamento. Persino qualche giorno fa si è recata a vederne degli altri anche perché la famiglia ha bisogno di stabilità e per i figli Valeria Grasso è disposta a fare di tutto.
Nell’ultimo anno, alla difficoltà che comporta il vivere sotto programma di protezione si sono aggiunti nuovi problemi con lo Stato che le aveva trattenuto alcune somme dall’indennità mensile che la  testimone di giustizia riceveva. Una vicenda già denunciata pubblicamente da Valeria Grasso alla fine dell’anno scorso e che riguarda il periodo trascorso in albergo.

Non solo. Da gennaio le è stata tolta l’indennità relativa alla figlia, Margherita, che è dovuta tornare a Palermo per curarsi dalla depressione in cui era caduta proprio a causa dei traumi subiti in questi anni. Ed ora una nuova beffa. L’indennità è stata tolta per intero senza che la stessa Valeria fosse stata avvisata. Lo ha dovuto scoprire da sola, con una telefonata. “E’ davvero una storia brutta, pericolosa, inquietante e che lascia davvero senza parole – dice la stessa testimone di giustizia – Mi sento davvero presa in giro dallo Stato. Due giorni fa appena sono stata accompagnata a vedere delle abitazioni in località protetta e sono venuta con mia figlia Margherita, che dopo tutto quello che ha passato ha bisogno di un luogo tranquillo in cui poter vivere. Abbiamo dovuto fare tutto in giornata con viaggio d’andata e di ritorno stabilito dal programma di protezione”. Ma non è questo il problema. “Oggi, come sempre ad ogni inizio mese, sono andata a controllare se ci erano stati già versati il contributi previsti dal programma di protezione – prosegue la Grasso – Ebbene nella carta erano presenti solo 8 euro. Immediatamente ho chiamato chi di dovere e dopo una verifica sono venuta a sapere che mi era stato sospeso il contributo di sopravvivenza.
E io, che non lavoro da un anno e mi trovo mio malgrado a dover andar via dalla mia terra, come dovrei fare con i miei tre figli a carico? E’ questo il modo in cui lo Stato ha intenzione di proteggere chi ha scelto la legalità denunciando reati? Io voglio sapere il motivo per cui mi è stato tolto l’accredito e per quale motivo non sono stata avvisata ma devo venirlo a sapere quasi casualmente. Io voglio che si faccia chiarezza su questo e per farmi ascoltare sono disposta anche a gesti estremi se necessario”.
Quindi aggiunge: “Non mi pento della scelta fatta e cioè, quella di denunciare i miei estorsori. Neanche i miei figli me lo hanno fatto mai pesare, anzi si sono sempre detti orgogliosi. Neanche mia figlia Margherita, nonostante tutto quello che ha vissuto e sta vivendo. Ma se è giusto che, ancora oggi, vada in giro per l’Italia a incontrare tante persone per dire loro quanto sia importante non pagare il pizzo, è altrettanto importante dirgli come stanno le cose. Il Programma di protezione per i testimoni di giustizia non funziona perché ci sentiamo lasciati soli. Non ne faccio una questione di soldi, i miei figli avranno sempre da mangiare in qualche modo. Durante il periodo in cui mia figlia è stata male, a parte gli amici ed i compagni di lotta da nessuno mi è stato chiesto se avessi bisogno di qualcosa. E anche questo è importante se si vuole convincere ad un testimone di giustizia che ha fatto la scelta giusta.
In questo modo più che un programma di protezione sembra una punizione, una distruzione per chi denuncia. Io ho solo fatto il mio dovere di cittadina ed è così che veniamo trattati? Mi chiedo se il Ministro Cancellieri è al corrente di questa situazione. Il messaggio che passa attraverso queste azioni è devastante. In passato non ho mai detto certe cose anche per rispetto della privacy della mia famiglia ma ora denuncio queste situazioni perché è giusto che si sappia. Intanto oggi sono stata in Procura per denunciare quanto accaduto. Ma io vado avanti e se questa deve essere la situazione tanto vale che non torno più nella località protetta. Tanto vale che resto dove voglio stare, ovvero nella mia terra e nella mia città. Pur sapendo i rischi che corriamo io e la mia famiglia. Qualche giorno fa mia figlia, di appena 11 anni, ha ricevuto una telefonata anonima in piena notte sul cellulare dove qualcuno in siciliano le ha detto “So chi sei e so chi è tua madre”. Un fatto questo che ho già denunciato agli organi inquirenti. Noi testimoni di giustizia chiediamo solo rispetto. Non è una questione di soldi ma di dignità di essere umani. Perché sono consapevole che la condanna a morte ce l’avrò per sempre ma non posso permettere che venga calpestata”.

FONTE: Antimafiaduemila art. di Aaron Pettinari

20 anni di razzismo in Italia

Agosto 1st, 2013 by Matteo infoLab0.1
Perché razzisti ignoranti continuano a prosperare nell’Italia multiculturale?

L’Italia sta cambiando ma la “battuta” razzista sul ministro Cécile Kyenge dimostra perché il progresso è un processo lento e difficile.

“Amo gli animali, ma quando la vedo, non posso non pensare a un orango”. Sono queste le parole pronunciate dal politico italiano Roberto Calderoli su Cécile Kyenge, il ministro nero dell’Integrazione, in occasione di un recente festival organizzato dal suo partito, la Lega Nord. E su Kyenge, chiamata a ricoprire la carica di ministro ad aprile, Calderoli ha aggiunto che “forse dovrebbe fare il ministro nel suo Paese. È anche lei a far sognare l’America a tanti clandestini che arrivano qui”.

L’uscita di Calderoli è solo l’ultima di una lunga serie di commenti razziste rivoltanti espressi da esponenti politici e altre personalità appartenenti a tutto lo spettro politico. Che lo si creda o no, lo stesso Calderoli ha puntualizzato che la sua era solo “una battuta” e che “non voleva essere razzista”. Cosa sta succedendo? Perché la nomina di Kyenge ha scatenato un tale impeto di razzismo e odio?

Quando sono arrivato in Italia nel 1988, a Milano, gli immigrati si contavano sulle dita di una mano. Le cose hanno iniziato a cambiare negli anni ’90 e negli anni 2000, quando più di 4 milioni di lavoratori stranieri ha messo piede in Italia per dedicarsi prevalentemente, almeno all’inizio, a lavori non specializzati nel contesto di un’economia in forte espansione. L’invecchiamento della popolazione e la ricchezza crescente hanno fatto così registrare un’impennata nella domanda di addetti alle pulizie, collaboratori domestici e manodopera varia da impiegare in lavori umili a cui la maggior parte degli italiani non desiderava più dedicarsi.

Dal sistema politico questi immigrati erano praticamente esclusi. Le rigide leggi sulla cittadinanza, poi, avevano reso estremamente difficile per la seconda e la terza generazione, la cosiddetta generazione Balotelli, acquisire una qualsiasi forma di diritto. Persino i nati in Italia potevano acquisire lo status di italiani solo al compimento del diciottesimo anno di età. È in questo contesto che la Lega Nord è giunta al potere, guadagnando una posizione di primo piano.

Kyenge è giunta in Italia nel 1983. Oculista, nel 1994 ha sposato un italiano e in Italia sono nate e cresciute le due figlie. Italiana e nera, il ministro ha promesso di riformare le leggi italiane sulla cittadinanza, un cambiamento a cui il centrodestra italiano si oppone strenuamente.

Agli inizi, la Lega si è attestata come partito che ha fatto dell’anti-politica e della crociata contro il mezzogiorno d’Italia il suo cavallo di battaglia, affermandosi soprattutto nelle province dell’Italia settentrionale. Negli anni ’90, salita al potere, ha amministrato un numero considerevole di città settentrionali, compresa Milano, e grazie all’alleanza con Silvio Berlusconi ha finito per governare il Paese. Lo stesso Calderoli è stato ministro e quindi vicepresidente del Senato, una delle più importanti cariche istituzionali del sistema politico italiano.

La Lega è sempre stata un partito razzista, fomentando il conflitto etnico e religioso tutte le volte che si è presentata l’occasione. Sono così numerosi i commenti e le azioni di evidente stampo razzista di cui la Lega si è resa protagonista che sarebbe possibile compilare un’intera enciclopedia. È capitato per esempio che il sindaco di un’importante città italiana abbia chiesto di vestire gli immigrati come animali per poter dar loro la caccia, o che un altro esponente della Lega, di recente, abbia accolto con entusiasmo la notizia della morte di immigrati periti nel tentativo di raggiungere le nostre coste via mare.

Da più di 20 anni questo genere di commenti non conosce tregua. Il fondatore ed ex leader della Lega,Umberto Bossi, ha parlato di un luogo chiamato “terra di Bongo Bongo”. Il razzismo è la politica ufficiale del governo, imposta dall’alto, tollerata a tutti i livelli, anche dalla sinistra italiana che, per un po’, con la Lega ha stretto un’alleanza scellerata. Ma sulla definizione di razzismo c’è divergenza di vedute. Secondo Calderoli, paragonare una donna nera a un orango è “una battutina” se non una “battuta simpatica”. E quando in una vignetta Mario Balotelli è stato ritratto come King Kong, in tanti non hanno nemmeno visto il problema.

Oggigiorno si assiste ad un cambiamento. Le polemiche hanno iniziato a modificare il linguaggio utilizzato. Persino i principali quotidiani di qualità hanno adottato a lungo un linguaggio razzista per indicare con un cliché gli immigrati. Per anni il Corriere della Sera ha usato il termine vu cumprà per etichettare quei venditori ambulanti che, stranieri, non riuscivano a parlare correttamente l’italiano.

Azioni individuali, come quella del calciatore Kevin Prince Boateng che, bersagliato da cori razzisti, ha abbandonato il campo (sorpresa sorpresa, ai cori si era unito anche un militante della Lega), hanno sollevato un ulteriore vespaio di polemiche. Ma il progresso è doloroso e lento e l’esclusione degli immigrati da qualsiasi forma di partecipazione politica e dal potere in generale li rende vulnerabili agli attacchi e allo sfruttamento.

L’Italia non è un Paese razzista, ma è un Paese dove il razzismo viene tollerato e dove una persona come Calderoli ricopre cariche istituzionali. Tuttavia, il razzismo non vincerà perché il futuro è con l’Italia di persone come Balotelli e Kyenge. L’Italia è un Paese multiculturale, che piaccia o no. E quando vedo Roberto Calderoli, non posso non pensare a un razzista ignorante.

*Traduzione di Grazia Ventrelli e Sara Angelucci per “italiadallestero.info

*Articolo originale di  John Foot su “The Guardian” del 15 luglio 2013

E’ arrivato il Bonus Energia 2013: Ecco come averlo

Agosto 1st, 2013 by Matteo infoLab0.1

Il Bonus Energia è stato emesso dal Governo per aiutare quelle famiglie che hanno bisogno di un aiuto economico, garantendo loro un notevole risparmio. A rendere operativo il Bonus Energia 2013 è l’Autorità per l’energia in collaborazione con i vari Comuni.


Da notare che il bonus per l’energia elettrica viene riconosciuto anche a persone con handicap fisici, o con necessità di apparecchiature salvavita.


Possono usufruire al bonus:




Tutti coloro che hanno un contratto di fornitura elettrica, fino a 3 kW per una famiglia di residenti fino a 4 persone fisiche. Oppure fino a 4,5 Kw, per un numero di familiari con la stessa residenza superiore a 4;

-Coloro che appartengono alla fascia ISEE non superiore a 7500 euro;

-Coloro che sono all’interno di un nucleo familiare con più di 3 figli a carico e ISEE non superiore a  20.000 euro, all’interno dei quali vi è inoltre una persona malata gravemente.

  Oggi il Bonus vale per ogni singolo caso:

– 71 euro per una famiglia di massimo 2 persone

– 91 euro per un massimo di 4 persone
– 155 euro per più di 4 persone
– Per coloro che hanno problemi di salute, il bonus va calcolato caso a caso, e si suddivide in tre fasce, questa modifica è stata introdotta da quest’anno e varia in base alle attrezzature mediche delle quali ogni singolo richiedente necessita e per quanto tempo.

Tutte le informazioni e i moduli per usufruire del Bonus energia e per il Bonus gas potete trovarli alla pagina Bonus Energia 2013, cercate tra le varie voci e troverete tutta la documentazione necessaria, le variazioni rispetto agli anni passati, e i moduli da compilare e la documentazione da allegare, inoltre c’è anche il numero verde per informazioni.



FONTE: Worky.biz

Segui +InfoLab0.1 

Tortura, l’Italia è sola superata anche dal Vaticano

Luglio 31st, 2013 by Matteo infoLab0.1

La decisione del Papa di cancellare la pena dell’ergastolo e di introdurre nell’ordinamento penale vaticano il reato di tortura, adeguandosi alle norme internazionali sancite dalla Convezione delle Nazioni Unite, è un segnale. Un segnale ai governi del mondo, oltreché a quelle gerarchie ecclesiali troppo spesso silenti davanti alla violazione dei diritti umani, se non addirittura conniventi con quei
regimi ma anche quelle democrazie che la praticano, più o meno sistematicamente. L’Italia, dove la tortura non è ancora punibile, è uno di questi Paesi. Anche se a ricordarlo ieri è stata solo l’associazione Antigone, Rifondazione comunista e un paio di parlamentari Pd.






Ratificata da 25 anni la Convenzione Onu contro la tortura, malgrado i richiami e le sanzioni europee, malgrado le sentenze di due diversi tribunali arrivate negli ultimi mesi – violenze a Bolzaneto e morte di Stefano Cucchi – che hanno annotato le difficoltà processuali derivanti dalla mancanza della fattispecie di reato nel nostro ordinamento, l’Italia continua a tergiversare. L’ultimo passo sulla via del rispetto delle regole internazionali lo abbiamo fatto nell’autunno scorso, quando il governo Monti ha ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura (Opcat), depositato poi nell’aprile 2013 ed entrato in vigore un mese dopo. Un Protocollo che conferisce al Comitato Onu contro la tortura poteri effettivi e non più simbolici – di ispezione e monitoraggio – e impone ai Paesi aderenti l’istituzione entro un anno del National preventive mechanism (Npm), un meccanismo interno di controllo e garanzia dei diritti umani in tutti i luoghi di detenzione: non solo carceri ma anche caserme, centri per immigrati, reparti sanitari protetti, ecc. Entro maggio 2014, dunque, l’Italia dovrebbe anche dotarsi di uno strumento di questo tipo, come può essere l’istituzione del Garante nazionale dei detenuti, magari conferendo a questa figura maggiori poteri rispetto a quelli goduti dai garanti regionali. 
Eppure non sono pochi i disegni di legge depositati in Parlamento: al Senato c’è quello di Felice Casson che nella scorsa legislatura si è bloccato ai primi passi in commissione Giustizia, e alla Camera ce ne sono almeno un paio, firmati da Luigi Manconi, Sel, M5S. Ma l’accordo tra le forze politiche è difficile da raggiungere, soprattutto su un punto: delitto generico o delitto proprio del pubblico ufficiale? Da noi è forte l’opposizione di certi sindacati di polizia e delle lobby militari a inquadrare la fattispecie di reato nell’ambito del delitto specifico, ossia commesso da persona nel ruolo di rappresentante dello Stato. E certa politica non riesce a emanciparsi. 

Anche su questo punto siamo sempre più isolati, in Europa. Agli antipodi dei Paesi dove la tortura è un delitto specifico (Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Islanda, Lettonia, Lussemburgo, Macedonia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria), come scrive Patrizio Gonnella nel suo «La tortura in Italia» edito da DeriveApprodi. E ora superati anche dal Vaticano. 

È evidente che il Parlamento ha bisogno di una spinta per procedere sulla via della civiltà giuridica. Il disegno di legge di iniziativa popolare messo a punto da Antigone, Fuoriluogo, Unione delle camere penali e altre associazioni, ha quasi raggiunto le 50 mila firme necessarie. Si potrebbe partire da qui, per scuotere la politica appaltata o distratta da problemi giudiziari eccellenti.


FONTE: Il Manifesto

+InfoLab0.1 

DIAZ: la lettera di Mark Covell al giudice del tribunale di sorveglianza di Genova

Luglio 30th, 2013 by Matteo infoLab0.1
Mark Covell

Qualche giorno fa è stata resa pubblica la lettera che Mark Covell, giornalista inglese finito in coma dopo la “macelleria messicana” delle scuole Diaz, ha spedito al tribunale di sorveglianza di Genova.
Ve la voglio qui riproporre sperando che nel frattempo venga fatta GIUSTIZIA .




       



         Dear Dr. Giorgio Ricci,

Mi chiamo Mark Covell. Sono il giornalista inglese che fu quasi ucciso nell’irruzione alla Scuola Diaz durante il G8 di Genova del 2001. Mi permetto di inviarLe questa lettera per esprimere ciò che provo a proposito delle condanne inflitte con la sentenza della Suprema Corte di Cassazione, lo scorso Luglio. So che ci saranno diverse udienze per decidere se i poliziotti condannati dovranno scontare la pena in carcere o no.
Nonostante non sia una pratica usuale per un giudice ricevere una lettera del genere, Vi scrivo per farVi sapere esattamente cosa provo, come una delle vittime più conosciute, e ciò che tutti noi della Diaz ci aspettiamo di veder fare, in nome della giustizia.
Chiedo a tutti coloro che considereranno il contenuto di questa lettera di comprendere che noi, vittime della Diaz, abbiamo vissuto un inferno che non si è fermato solo alla notte della “macelleria messicana”. Abbiamo visto da lontano, e talvolta anche da Genova o da Roma, queste persone condannate venire promosse di volta in volta, fino al punto in cui hanno potuto usare gli strumenti e le risorse del loro lavoro per intimidire, minacciare e mettere sotto sorveglianza le vittime di Diaz. Essi hanno inoltre ostacolato la giustizia, distrutto le prove ed eretto un muro di silenzio che abbiamo dovuto fronteggiare per anni. Non mi risulta che siano mai state pronunciate parole di comprensione o di scuse nei confronti delle loro vittime, né che vi sia stata resipiscenza rispetto ai fatti commessi.

Per quasi dodici anni, tutti noi della Diaz abbiamo visto uomini come Berlusconi e altri cambiare le leggi e le regole del gioco, in modo da permettere ai poliziotti di sfuggire a qualsiasi sanzione per le loro azioni nella notte della Diaz, come ad esempio la riduzione della prescrizione e l’introduzione di leggi volte ad assicurare l’immunità delle Forze di Polizia condannate a pagare una qualsiasi forma di risarcimento.
Ma, nonostante ciò che Berlusconi e altri politici hanno fatto, i superpoliziotti condannati della Diaz mantengono la loro buona parte di colpa e responsabilità.
Inoltre, sembra che i diritti dei criminali poliziotti condannati siano sempre stati tenuti in maggiore considerazione rispetto ai diritti delle vittime. Mettendo da parte tutte le promozioni, ad alcuni di questi uomini è stato permesso di dichiararsi nullatenenti per evitare di pagare un solo euro a titolo di risarcimento a noi vittime, lasciando l’onere ai contribuenti italiani. Inoltre, grazie all’indulto, nessuno di loro finora ha mai scontato un solo giorno di carcere, per i loro crimini.
A proposito dell’indulto, posso solo dire che è stato enormemente ingiusto vedere poliziotti che hanno scritto la pagina più nera della storia della Polizia Italiana, distruggendone la reputazione, essere autorizzati a beneficiare di uno sconto di pena significativo. Nel mio paese l’indulto è concesso solo a detenuti che hanno commesso reati minori e che comunque hanno già scontato una parte della pena. Non è concesso ad alti comandanti della polizia, che sono stati condannati per reati gravi come percosse, tentato omicidio delle vittime, falsificazione delle prove (vale a dire due bottiglie molotov), falsi arresti, false dichiarazioni, abusi e torture.
A proposito dei falsi arresti e delle false dichiarazioni, desidero sottolineare che il falso arresto per associazione a delinquere di vittime gravemente ferite è stato compiuto con il preciso intento di mandare in carcere le vittime per almeno 10-15 anni sulla base di false accuse e coprire ciò che Amnesty International ha chiamato “la più grande sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dalla Seconda Guerra Mondiale”.
E qui stiamo discutendo se Gratteri e altri poliziotti condannati debbano scontare una pena di meno di due anni!
Dov’è il confronto? Come una delle vittime gravemente ferite della Diaz, vorrei vedere questi poliziotti scontare in prigione esattamente lo stesso periodo di tempo che loro stessi hanno tentato di infliggere a noi, sulla base di prove e dichiarazioni assolutamente false.
Spesso mi domando cosa sarebbe successo se il piano della polizia alla Diaz fosse stato portato a termine; sarei stato ingiustamente condannato e avrei scontato 15 anni in una prigione italiana, senza nessuna pietà. Quasi 12 anni dopo quella fatidica notte, ogni misericordia disponibile viene dispensata solo a favore di questi poliziotti, da un sistema legale che è incapace di proteggere i diritti delle vittime.
Il mio caso, in particolare, è stato archiviato perché nessuno dei molti poliziotti e funzionari presenti si è fatto avanti per testimoniare. A quanto pare nessuno ha visto o ha sentito, nonostante in quel momento io fossi l’unica persona in strada, sulla quale si sono accaniti i poliziotti. Vi prego di consultare la richiesta e il decreto di archiviazione del procedimento aperto per tentato omicidio in mio danno, se desiderate acquisire familiarità con il mio caso personale.

Anche se il desiderio dei poliziotti condannati di mandare le vittime in carcere per coprire i loro crimini non si è realizzato, le vittime hanno comunque dovuto subire una realtà se possibile ancora più insidiosa.
La maggior parte delle vittime internazionali del raid alla Diaz sono state illegalmente deportate nei loro paesi di origine, dove sono state accusate dai loro governi, e talvolta anche da amici e parenti, di essere criminali ed hanno dovuto affrontare un particolare tipo di discriminazione. I livelli di povertà e la profondità del danno sono estremamente elevati tra le vittime della Diaz. Alcuni di noi si sono ridotti ad essere senzatetto e a vivere per strada, ed è stato estremamente difficile essere trattati come terroristi dalle autorità del proprio paese, solo perché tutti hanno creduto alle menzogne raccontate da questi superpoliziotti condannati.
Per quelle vittime che non si sono fatte intimidire dalla prepotenza, dalle menzogne e dall’odio puro della polizia e che hanno osato tornare a Genova per lo svolgimento dei processi, è stato come vivere in una guerra in cui entrambe le parti si scrutano l’un l’altra attentamente, mentre il processo va avanti. Ogni volta che vedo poliziotti italiani divento incredibilmente nervoso. E’ così per tutti noi. Per noi le forze dell’ordine e i tutori della legge rappresentano la paura, il dolore, la tortura, il controllo totale della popolazione.
La vita per me a Genova è stata ed è sempre molto intensa. Viviamo tutti la paura che un giorno uno di noi incontrerà uno dei poliziotti della Diaz e le minacce già date saranno realizzate. Non riesco mai a rilassarmi quando sono in Italia. La maggior parte di noi si sente come se dovesse giocare perennemente al gioco del gatto col topo, per rimanere in vita qui.
E’ proprio per l’arroganza e per la completa mancanza di rimorso dei comandanti condannati, che dovrebbe essere applicata la massima sanzione possibile. Da parte dei condannati non ci sono state scuse significative né tantomeno alcun senso di rimorso. Non c’è stata e non c’è ancora nessuna collaborazione da parte loro sulle questioni in sospeso del caso Diaz. Tutti, in diversa misura, hanno eluso le domande, sono rimasti in silenzio nonostante il loro coinvolgimento fosse testimoniato da prove schiaccianti e hanno raccontato una marea di bugie alla stampa, rifiutandosi però di testimoniare in tribunale. Solo dopo la loro condanna in Cassazione alcuni di loro hanno dichiarato la propria innocenza, come Fournier e Canterini. Per le vittime della Diaz, i loro deboli tentativi per evitare la prigione, sono l’ultimo modo che hanno per sfuggire alle loro responsabilità per il raid.
Per quanto riguarda la verità su ciò che è realmente accaduto, la Procura ha affermato che c’è stato un vero e proprio muro di silenzio al quale, per una regola non scritta, ogni poliziotto si è attenuto. Questo muro di silenzio dai comandanti condannati, da tutta la polizia italiana e dal Ministero dell’Interno è assordante per le vittime della Diaz. Esso ha permesso ai poliziotti condannati, lungi dal mostrare rimorso o colpevolezza, di intimidire, mentire, ostacolare le indagini e distruggere le prove, nel tentativo di sfuggire all’azione penale. Ha inoltre impedito a me e ad altre vittime di avviare un processo per tentato omicidio, contro i già condannati superpoliziotti.
Infine, come detto sopra, l’irruzione alla Diaz è stata la pagina più nera della storia della polizia italiana. La sentenza definitiva della Corte di Cassazione deve essere accolta e, dal punto di vista delle vittime, ai comandanti di polizia condannati si dovrebbe applicare la massima sanzione possibile, in modo che ciò serva da esempio ad altri poliziotti su cosa non fare durante un’incursione per la ricerca di armi (Tulps 41).
In conclusione, prego il Tribunale di prendere in considerazione anche la voce delle vittime nella decisione che dovrà prendere.
          Come post-scriptum, trascrivo di seguito questa poesia chiamata ‘Total Eclipse’. E’ stata scritta da un’anonima vittima della Diaz nel 2006.

Yours sincerely

                  Mark Covell




Total Eclipse


I don’t know what is happening to me. The world around me collapsed. I have lost it. This will never be over. It will always stay like this. I will never be able to dance again. I will never be happy again. I will never love again. I will never laugh again. My world is pain and tears. My world is loneliness. My world is a black tower in a dark sea. My life is gone. Is this life still worth living? Loneliness. Pain, deeper than ever before. Why don’t I just go? Why don’t I just stop moving in the middle of the street.

Looking down the bridges. I could make it stop. Make this nightmare be over. So lonely, so lonely. I am alone. Alone in this sea of pain, alone with my screams. It nearly tears me apart. Nobody cares. I am scared of people. Can’t face seeing anybody. Hiding away. What if they ask how I am doing and I don’t know what to say. There are no words, only tears and screams. I can’t scream my pain in your face. So I hide.

My house is not my house anymore. How did my friends turn into people I am scared off? I don’t dare to leave my room. The risk to meet somebody on the corridor is too high. I am alone and I will never be happy again. Something else has taken control over me. A black ghost follows my steps and whenever he feels like, he throws me on the floor. It can happen any moment. I don’t dare to go out anymore.

I can lose it any moment and end up crying and winding in cramps on the floor. What if that happens on the street? I rather stay in my bed. What is there to do for me anyway? Nothing makes sense anymore. I cry. Cry like I have never cried before. Something is tearing my stomach out of my body. I nearly puke. I am not myself anymore. I am everybody. Every prisoner. Every body beaten up by the police. Every body who gets tortured. This feeling does not stop. Weeks, and weeks. I feel ashamed. I don’t want to appear weak. I don’t want to admit what they did to us had such an impact on me. Now I am nothing. Nobody shall see me like this

Aldrovandi, tornano liberi tre degli agenti condannati. Il sindacato: “Bentornati”

Luglio 29th, 2013 by Matteo infoLab0.1

Scatta il fine pena per Paolo Forlani e Luca Pollastri, due dei quattro poliziotti in carcere per la morte di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto il 25 settembre 2005 a Ferrara.  Monica Segatto agli arresti domiciliari tornerà in libertà nei prossimi giorni. A fine agosto sarà il turno di Enzo Pontani. 
Il Coisp: “E’ un giorno speciale. Colleghi trattati come criminali incalliti”
 

Ricordatevi questi volti
Tornano liberi tre dei quattro agenti condannati per il caso Aldrovandi. E il primo commento è quello di Franco Maccari, segretario generale del Coisp, Sindacato Indipendente di polizia:

“Domani 29 luglio sarà un giorno speciale. Non solo perchè finalmente torneranno completamente liberi i colleghi travolti dalla drammatica vicenda, ma anche perchè registreremo il primo caso in Italia di condannati per mera colpa che scontano fino all’ultimo secondo della loro pena non in libertà. Finalmente la storia ha trovato qualcuno a cui far sentire tutta la severità della legge che diventa spietatezza; quando si deve rispondere all’onda emotiva che si leva dalla piazza ed alla voglia di vendetta di qualcuno che evidentemente conta più degli altri”.


Scatta il fine pena per Paolo Forlani e Luca Pollastri, due dei quattro agenti di polizia in carcere per la morte di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto il 25 settembre 2005 a Ferrara durante una colluttazione con gli agenti che lo fermarono, poi condannati a 3 anni e 6 mesi per eccesso colposo nell’omicidio colposo del ragazzo. 
I due agenti stavano scontando, loro in carcere mentre gli altri due colleghi Monica Segatto ed Enzo Pontani ai domiciliari, i sei mesi di pena residua, dopo l’ applicazione e lo sconto dell’indulto alla pena base. Dunque dopo le pratiche di rito, con le notifiche dell’ordine di scarcerazione, per il fine pena, usciranno dal carcere dell’Arginone Luca Pollastri e Paolo Forlani. Monica Segatto è da tempo agli arresti domiciliari (anche per lei comunque scatterà il fine pena in questi giorni) mentre per Pontani, la cui condanna esecutiva e la conseguente carcerazione scattò quasi un mese dopo gli altri, per un cavillo tecnico, la libertà arriverà a fine agosto.
Con il fine pena si esaurisce la fase penale (processi, condanne e pene) del caso Aldrovandi, mentre restano ancora da applicare le sanzioni amministrative decise dal ministero degli Interni con il provvedimento disciplinare a carico dei quattro agenti, che prevedeva la sospensione di sei mesi dal servizio. Per i quattro agenti è ancora pendente il giudizio davanti alla Corte dei Conti dell’Emilia-Romagna, poiché la procura regionale della magistratura contabile contesta ai quattro poliziotti un’ipotesi di danno patrimoniale per il risarcimento che il ministero dell’Interno ha pagato ai familiari del giovane ferrarese: una cifra che si avvicina ai due milioni di euro motivata dai danni materiali e di immagine che vi sarebbero stati per la polizia e l’istituzione.
“Rimane”, ha continuato Franco Maccari, “e rimarrà sempre, come monito per tutti gli altri appartenenti alle Forze dell’Ordine, il trattamento da criminali incalliti riservato ai colleghi”, aggiunge Maccari, “gli unici entrati in carcere in Italia per scontare una condanna subita per una contestazione colposa negli ultimi 40 anni”. Maccari ha stigmatizzato il trattamento subito dagli agenti “a fronte di indegne concessioni di agevolazioni e trattamenti benevoli quando non di favore a criminali veri” mettendo l’accento sulle “storture di un sistema che sembra governato dai media invece che dalle leggi, un sistema in cui il boss dei boss Provenzano può lasciare il carcere duro (anche se le sue condizioni non cambieranno di fatto perchè resterà semplicemente affidato alle cure mediche come già è) perchè non ce ne sarebbero più i presupposti, ma quattro Poliziotti possono essere tenuti in carcere anche se non ce ne sono i presupposti”.



FONTE: Il Fatto Quotidiano


                                                     

@InfoLab0.1

Istanbul, “donne incinte spettacolo ignobile”

Luglio 29th, 2013 by Matteo infoLab0.1

#resistpregnant
 Decine di donne incinte di Istanbul sono scese in piazza ieri per protestare contro un avvocato e pensatore sufi che nel corso di uno show televisivo ha detto che le donne con il pancione in pubblico sono uno spettacolo “ignobile”. In piazza Taksim e a Kadikoy, sulla sponda asiatica del Bosforo, le donne in dolce attesa e i loro mariti, con cuscini sotto la maglietta, hanno sfidato l’ira del pensatore islamico Omer Tugrul Inançer “andandosene in giro” e gridando slogan come “il nostro corpo è nostro”.
 “Annunciare una gravidanza con uno squillo di trombe è contro la nostra civiltà. 

Non dovrebbero andarsene in giro per la strada con quelle pance. Prima di tutto è contrario all’estetica” ha detto Inançer durante un programma quotidiano serale per la fine del digiuno del ramadan sulla rete tv TRT.  “Dopo sette o otto mesi di gravidanza le future madri escono con i loro mariti in auto per prendere un po’ d’aria. E vanno fuori casa alla sera. Ma oggi sono tutte in televisione. E’ ignobile, non è realismo, è immoralità” ha detto Inancer. Che poi ha ribadito la sua posizione all’agenzia Anadolu. “Ti sposi e resti incinta. Va tutto bene, ma questo non può essere un motivo per il quale te ne vai in giro roteando la pancia. Questa immagine non è estetica. Sono cose da venerare e le cose da venerare vanno trattate con rispetto”. Secondo Inancer poi le aziende concedono permessi di maternità alle loro dipendenti proprio per consentire loro di restarsene a casa. Parziale presa di distanza da Inancer dalla Direzione per gli affari religiosi: “nell’Islam non c’è isolamento nei confronti delle donne e la maternità è un dono” si legge in un comunicato della Direzione. Tuttavia “le donne incinte dovrebbero prestare maggiore attenzione al loro modo di vestire, ogni donna dovrebbe farlo. Non dovrebbero indossare abiti che ne mostrino il ventre o le spalle”.

Subito dopo le sue parole su Twitter è nato l’ hashtag #resistpregnant. Altre proteste simboliche si preannunciano per i prossimi giorni.Anche l’opposizione non è rimasta a guardare, gridando a un nuovo segnale della “islamizzazione rampante” della Turchia sotto Erdogan. “Devono smetterla di prendersela con le donne in questo Paese. Se potessero, regolamenterebbero anche l’aria che le donne respirano”, ha tuonato Aylin Nazliaka. “Inancer dice che è sgradevole vedere donne incinte per strada. 

Ma non è sgradevole invece sentire il premier dire che devono avere almeno tre figli?” ha invece protestato il nazionalista Mehmet Oktay, che ha anche accusato la Trt di essere diventata un organo di propaganda del governo islamista.

FONTE: Contropiano.org

                                                                                                                                          @InfoLab0.1

Canale di Sicilia: 31 morti mai esistiti

Luglio 28th, 2013 by Matteo infoLab0.1

Sono 31 i migranti che venerdì pomeriggio hanno conosciuto uno dei modi in assoluto più orribili per morire. Con l’angoscia di chi sa che è finita, in pochi secondi, e nel silenzio del mare aperto. Un silenzio assordante che rende vana qualunque sguaiata richiesta di aiuto. Poi giù, in fondo al mare. A rendere ancora più grave questa atrocità si è unito il silenzio rivoltante dell’indifferenza. Per la stampa nazionale italiana, quella dello stesso Paese che è riuscito a salvare 22 persone delle 53 naufragate, queste vittime non esistono. Non sono mai esistite. 


Sono morti senza mai essere stati vivi per molti tra i nostri più autorevoli organi di informazione.
Alle 20:30 di un qualunque sabato sera italiano sono arrivati 21 uomini e una donna nei cui occhi si poteva ancora leggere tutto l’orrore appena vissuto. Molti di essi, a bordo del guardacoste che li ha accompagnati nel “porto non sicuro” di Lampedusa, indossavano le tute da lavoro che l’equipaggio della petroliera Gaz United gli ha offerto quali unici indumenti asciutti a disposizione. Alcuni scendono con evidenti ferite, doloranti. 
Altri evidentemente sotto choc. Sono di varie nazionalità ma tutti della regione centro-occidentale dell’Africa. Partiti dal porto di Al Zuwara, a qualche decina di chilometri da Tripoli, in Libia, hanno visto improvvisamente sgonfiare il gommone con cui viaggiavano dopo appena un paio d’ore di navigazione.migranti soccorsi Morti in un silenzio assordante.

Si stavano finalmente lasciando alle spalle le vessazioni, la violenza, gli stupri, tutto quello che avevano vissuto in Libia per raggiungere la “civilissima” Italia. La stessa che intanto lanciava le banane sul palco a un proprio Ministro della Repubblica per puro, stupido razzismo scatenato dal solo colore della pelle. Evidentemente non sono propensi al dialogo, a differenza dei 250 sbarcati dai guardacoste della Capitaneria di Porto appena venti minuti prima. Un ragazzo, presumibilmente nigeriano, racconta, con poche parole in un egregio inglese, come in breve hanno visto afflosciare i tubolari del gommone e si sono ritrovati in acqua. A 29 miglia dalla costa. 

Dice di aver visto i suoi compagni risucchiati uno dopo l’altro dagli abissi del Mediterraneo, sotto i propri occhi. Un altro, sempre in inglese, con un espressione quasi alienata, borbotta solo una frase: “I saw my wife drown”. “Ho visto annegare mia moglie”.



FONTE: LinkSicilia 

                                                                                                                                    InfoLab0.1

Bologna, il PD disconosce il referendum (e la scuola pubblica)

Luglio 24th, 2013 by Matteo infoLab0.1

Virginio Merola

A Bologna qualche mese fa è successo l’impensabile. Un comitato di cittadini nato spontaneamente dal basso ha proposto un referendum per dire no al finanziamento comunale delle scuole private, in gran parte cattoliche. Per far capire come, soprattutto in un periodo di crisi e tagli, sia importante finanziare i servizi pubblici che vanno a beneficio di tutti e difendere la laicità delle istituzioni, piuttosto che lasciare in appalto certi settori al confessionalismo. E il referendum, nonostante la disparità di forze in campo e l’opposizione dei potentati locali, degli amministratori, delle istituzioni nazionali e della Chiesa, è stato vinto dal Comitato Articolo 33, sostenuto da sindacati e partiti come Idv, Movimento 5 Stelle e Sel, Rifondazione e Comunisti Italiani, e anche dall’Uaar. Un risultato che, sebbene non vincolante trattandosi di referendum consultivo e contestato per la bassa affluenza alle urne, assume un valore simbolico e apre la strada per ulteriori battaglie.



Tutto questo però al Comune di Bologna, guidato dal sindaco Virginio Merola (Pd), non interessa. Anzi, l’intenzione è quella di affossare il risultato del referendum, come scrive Alex Corlazzoli sul suo blog del Il Fatto Quotidiano. Proprio il Partito Democratico ha presentato in consiglio comunale un ordine del giorno, che sarà votato il 29 luglio, per confermare il finanziamento alle paritarie. Su questo il Pd ieri ha presentato una delibera (solo il consigliere Francesco Errani ha fatto sapere che si asterrà), con l’appoggio del Pdl. Certo, le obiezioni sono note e la questione non è semplice da gestire, ma il voto dei cittadini non può essere ignorato. Anche perché il referendum comunale è l’unico strumento di partecipazione disponibile, specie in un momento di scarsa credibilità dei partiti e della politica “di palazzo”. 

A protestare contro il tentativo del colpo di spugna a Palazzo d’Accursio sono scesi di nuovo in piazza i promotori del comitato referendario, con una veglia-staffetta in Piazza Maggiore. Anche la nostra associazione ha fatto la sua parte.

L’esperienza bolognese non può non far sorgere una riflessione sul Pd, che vorrebbe essere un partito progressista. Il Pd è nato dalla fusione tra un apparato politico ex comunista e uno ex democristiano. Tra gli accordi non scritti c’è evidentemente sempre stato il dogma della non conflittualità con le gerarchie ecclesiastiche. Quando, come sui cosiddetti temi “etici”, non si può proprio evitare, va comunque minimizzata. Se però entrano in gioco anche i costi pubblici della Chiesa, per il Pd diventa allora impossibile anche solo pensare di metterli in discussione. A costo di rischiare la farsa e l’aperta impopolarità. Ma una messa val bene Parigi, par di capire. 
Anche Bologna.

FONTE: La redazione di Uaar

Scandalo Amazon, tra illegalità e inumanità

Luglio 24th, 2013 by Matteo infoLab0.1

É sempre un gran peccato quando qualcosa che eravamo soliti ritenere efficiente e affidabile viene scoperta essere meno ineccepibile di quanto si pensasse. Lo scandalo finito sulle prime pagine di tutti i principali quotidiani tedeschi riguarda Amazon, popolarissima compagnia di commercio elettronico americana, famosa per le sue spedizioni ultra-rapide e per il più vasto catalogo di libri acquistabili online.

Un’inchiesta della Ard, principale gruppo radiotelevisivo pubblico in Germania, ha però suscitato un clamore enorme svelando come Amazon, compagnia con un fatturato annuo da 9 miliardi di dollari e una fetta di mercato pari al 20%, permetta che i dipendenti di uno dei centri tedeschi di smistamento della compagnia vivano in condizioni a dir poco inumane.



Il reportage è stato girato nella sede di Bad-Hersfeld, nello stato federale dell’Assia, quasi perfettamente al centro dello stato tedesco e per questo motivo, svincolo fondamentale per il movimento delle merci ovunque in Europa. Durante il periodo di Natale il personale occupato aumenta in quella sede di circa 5 mila unità a causa della mole enorme di lavoro da smaltire. Ad occuparsi dell’assunzione non è la stessa Amazon, ma un’agenzia interinale che, sfruttando il nome del colosso americano, riceve migliaia di richieste all’anno. In realtà però come il reportage ha mostrato i contratti “non riconoscono il versamento di contributi sociali e, soprattutto, prevedono una decurtazione del salario del 12% rispetto a quanto promesso in origine. In quasi tutti i casi i lavoratori, ancora a digiuno di tedesco, non capiscono neppure quel che firmano, visto tutte le carte sono compilate in lingua locale”.

Ma c’è di peggio. La maggior parte degli impiegati sono di origine straniera, spesso spagnoli a causa dell’enorme tasso di disoccupazione di quel paese e nel contratto viene promesso anche l’alloggio. Questi però risultano poi essere miniappartamenti in cui vengono stipati anche in sei per stanza, con condizioni igieniche precarie, lontanissimi dal posto di lavoro che viene raggiunto con delle navette spesso sovraffollate, il cui ritardo, causato da neve o traffico, incide sullo stipendio del personale. Chi si permette di criticare, ovviamente, viene licenziato in tronco.

Quello che ha destato più scalpore però sono le connotazioni politiche delle persone destinate – full-time- ad occuparsi della sicurezza dei lavoratori. Una delle agenzie della security infatti impone ai propri dipendenti vestiti recanti la scritta H.e.s.s., certamente come Hensel European Security Services ma che tetramente ricorda anche Rudolf Hess, uno degli uomini più conosciuti ed influenti durante il periodo nazista. In più alcuni dei capi utilizzati erano della Thor Steinar, marca simbolo dei neonazisti tedeschi.

Interpellato dai giornalisti un portavoce della compagnia ha dichiarato che all’interno dell’azienda non sono ammesse discriminazioni e che i contratti a tempo determinato, tipici del periodo di Natale, sono banchi di prova del personale “nella prospettiva di un impiego a lungo termine”. Nulla di strano, insomma.

Tutto ciò però avviene in Germania, in cui ogni minimo riferimento al nazismo viene acuito e in cui una vicenda come questa riporta alla memoria le parole di Angela Merkel per le celebrazione del 27 gennaio di quest’anno: “Olocausto, la nostra responsabilità è permanente”. In realtà però pare che vicende simili non rappresentino una novità per l’azienda, poiché un’altra inchiesta, nel magazzino di Lehigh Valley, in Pennsylvania, fatta questa volta dal The Morning Call, un giornale locale, aveva portato alla luce condizioni degradanti per gli impiegati locali, con turni di dieci ore e pochi minuti di pausa.

Insomma, mentre alcuni clienti tedeschi giurano che inizieranno a boicottare la compagnia statunitense, risuona forte l’incoerenza della pioggia di critiche fatte alla Foxconn cinese per la produzione di pezzi Apple, con condizioni di lavoro molto al di sotto degli standard occidentali. 
Quale Occidente, però, non si sa.



FONTE